
Il De Monarchia di Dante, per un qualsiasi lettore di oggi, risulterebbe probabilmente lo scritto più difficile da leggere del linguista, teorico politico e filosofo fiorentino.
Stiamo parlando di un trattato politico diviso in tre volumi risalente agli ultimi anni di vita dell’autore. Dal linguaggio, il quale è sintetico e asciutto, tipico della logica medievale, alla struttura argomentativa, che a sua volta risponde a un sistema dialettico a noi quasi sconosciuto ormai.
Non di meno, risulta difficile a causa degli argomenti trattati che non rientrano solamente in una dimensione politica come il titolo potrebbe lasciare intendere, poiché si spingono ben oltre.
Per quanto vi sia una certa tendenza a vedere alcune questioni come quelle analizzate nel testo come una visione ormai distante dall’attualità, in vero, è esattamente il contrario.
Il De Monarchia, se lo si analizza alla luce dei principi senza tempo della Tradizione, rivela la sua importanza metapolitica e, dunque, assolutamente libero dalle contingenze storiche che ne provocarono la nascita.
In questo breve trattato si vuole sottolineare la sua attualità in un momento di crisi profonda a livello di principi e di valori, dove la tradizione è stata dimenticata; una mancanza per la quale il nostro futuro appare oscuro visto i grandi cambiamenti antiumani che stiamo vivendo.
Nel prologo, Dante afferma la sua volontà di voler arricchire l’umanità rivelando la verità più nascosta legata alla monarchia temporale. Egli sostiene che un simile intento non è mai stato perseguito da nessuno prima di lui, e che la sua importanza è da considerarsi alla stessa stregua di altri illustri suoi predecessori in altri ambiti, come Aristotele, Cicerone ed Euclide.
Uno degli elementi alla base dell’opera è la visione cosmoteandrica (principio cristiano della trinità, che “scientificamente” ci porta alla visione che Raimon Panikkar, filosofo, teologo spagnolo, adduce al rapporto continuo e ininterrotto fra l’individuo, la materia e il cosmo infinito; non esiste un elemento senza il filo che lo collega agli altri due) in quanto articola, in una prospettiva trinitaria, teologia, cosmologia ed antropologia.
Secondo questa visione tradizionale della quale Dante si fa grande portavoce, e che ben conosciamo attraverso la più grande opera letteraria mai scritta, La Divina Commedia, l’uomo non è nato dal caso, né viene gettato in una esistenza priva di significato che ha come unico traguardo la morte, bensì, è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza come elemento centrale di un cosmo ben ordinato all’interno del quale, usando del libero arbitrio e della libertà che è elemento essenziale del suo essere persona umana, egli attraversa l’esistenza terrena per ricongiungersi al termine di essa con il suo Creatore.
Se diamo uno sguardo a quanto sta accadendo oggi con la continua ascesa di tecnologie avverse all’essere umano, dove sempre di più si cerca di alienare la persona dal creato, di allontanarla da Dio, dove in molti ambiscono addirittura ad auto divinizzarsi cercando di prendere il posto di Dio stesso, che cosa notiamo? Riprogettare l’uomo per snaturarlo e ricrearlo ad immagine e somiglianza di qualcuno che si sente creatore, non è forse il rovesciamento di un ordine naturale delle cose che ormai si protrae da secoli e che va a smantellare la basi della nostra cultura millenaria?
Nondimeno, tutto ciò è accompagnato da una continua “democratizzazione” degli usi e dei costumi, in nome di ideali “rivoluzionari” che strizzano l’occhio ad una sovversione spirituale, base di ogni movimento “ribelle” che, dietro il paravento del progresso e dell’evoluzione, induce un fenomeno contrario che porta l’essere umano ad andare indietro piuttosto che avanti. Le soluzioni tecniche invertono quello che dovrebbe essere un processo di evoluzione sano (ben distante dalle becere teorie Darwiniste), basato sulla sfera spirituale e non materiale.
E così, ci si è dimenticati che quell’ordine a cui si riferisce Dante di natura universale, si lega indissolubilmente ad una struttura la cui spina dorsale deve essere dura e inscalfibile se si vuole che resista alle minacce esterne; pertanto, vi è la necessita di un potere politico e uno spirituale. Nel testo, entrambi hanno il compito di aiutarlo, risvegliando in lui la consapevolezza delle sue origini ultraterrene e guidandolo verso la meta finale. Secondo Dante, come egli spiega nel trattato, la Monarchia temporale che si definisce come Impero, è il principato unico ed esteso su tutti gli uomini nella loro durata terrena ovverosia nel campo e sulle questioni che hanno una dimensione terrena.
Ma attenzione, perché l’azione dei due poteri necessita di un’investitura superiore che trae la sua legittimazione dall’alto, cioè da Dio stesso, e deve ispirarsi a principi e comportamenti di origine sacra e trascendente che sono stati oggetto di rivelazione attraverso le sacre scritture. Anche in questo caso, si noti come nella modernità, l’azione del potere politico (se mai ne esiste uno, in quanto è il denaro a governare e non gli uomini, se non coloro che lo controllano) non parte mai da un presupposto nobile, che guarda verso l’alto, ma al contrario, da uno materiale che tende a orizzontalizzare ogni cosa, la appiattisce, attraverso “soluzioni” tecniche che allontanano l’uomo da sé stesso, dal creato e da Dio.
Una visione teocentrica, infatti, che nella sua essenza guarda verso l’alto, è tutto ciò che manca oggi a fronte dei tempi oscuri che stiamo vivendo. Una visione che prende esempio da Dio e dai suoi comandamenti e che il cui tradimento, un tempo, incuteva timore negli uomini a fronte di un giudizio divino che non fa sconti a nessuno. Oggi, invece, vi è la pretesa di sentirsi come Dio, di volerne prendere il posto, procrastinando azioni abominevoli di qualsivoglia natura di cui nessuno teme più giudizio finale.
La legittimazione dall’alto, quindi, permane in capo ai rappresentanti dei due poteri nella misura in cui essi siano fedeli ai principi sacri così stabiliti, per mantenere fede alla missione spirituale e metapolitica che è stata loro affidata. L’impero, secondo la visione dantesca, è in virtù della sua struttura costitutiva nella quale il potere viene concepito come missione al servizio degli uomini, cioè quella forma politica in grado di garantire questa corrispondenza assicurando tanto ai governanti, quanto ai governati, pace, giustizia e felicità.
Così Dante scrive: «Il genere umano è più felicemente ordinato quando è regolato, quanto ai suoi moti e ai suoi motori, da un unico principe che agisce come motore unico e secondo un’unica legge in funzione di un unico moto… perciò appare indispensabile alla felicità terrena la presenza di una Monarchia, o di quel principato unico che si chiama Impero.»
Un ordine gerarchico che stabilisce dei confini ben definiti e che costituisce la spina dorsale di un cosiddetto Impero dona disciplina e senso di appartenenza, qualità che sono completamente scomparse in un mondo dove ci si vende al miglior offerente. Il principio e il valore morale, oltre che la fede in qualcosa di più grande che è alla base di una monarchia che pone al primo posto il rispetto dell’investitura dall’alto ricevuta, sono stati sostituiti dall’Interesse e dal culto della materia.
Nella Monarchia, Dante si propone di esporre la Veritas sull’impero universale mediante una dimostrazione che si pone addirittura sul piano scientifico. La parola Veritas, da lui espressamente utilizzata, si riferisce a una monarchia qualificata come Universalis e ad altre nozioni fondamentali per il bene e l’equilibrio dell’umanità. Dante parla di un ordine che si stende su tutto il mondo e che domina Omnes in Tempore, cioè tutti gli uomini e tutti gli altri esseri di condizione mortale, non attraverso una specifica bandiera o simbolo, bensì sulla base dei principi, dei valori universali e dei comandamenti di Dio.
Anche in questo caso, l’attualità di Dante è sorprendente. In un mondo che sta attraversando un processo di scristianizzazione mai visto prima nella storia, risulta chiaro come questo fenomeno miri proprio a distruggere tutte quelle fondamenta alle quali Dante si riferisce che sono la base della nostra cultura millenaria. Senza di queste non abbiamo alcuna difesa contro il leviatano della modernità e del progresso (regresso) che ci sta accompagnando dentro una dimensione post umana e che non contempla l’esistenza di Dio per come lo conosciamo.
Per Dante, questa monarchia è la condizione che Dio ha scelto per l’umanità, perché assicura il massimo dell’unità, che è immagine di Dio; la monarchia fondata su una visione teocentrica, rispecchia nel modo migliore l’organizzazione unitaria dei cieli; il monarca governa con il massimo di giustizia poiché teme il giudizio divino al quale egli è ben consapevole di non poter sfuggire.
Anche in questo caso, Dante ci dà una chiave di lettura che strizza l’occhio al passato. Infatti, si noti la mistificazione perpetrata a livello storico delle vicende legate alla monarchia italiana, considerata dalla storiografia ufficiale (e spesso anche nella cinematografia) come una fase del tutto negativa della nostra storia, omettendo tutti i fatti che dimostrano esattamente il contrario. Una realtà, peraltro, dimostrata dalla volontà di un potere sovrannazionale che almeno negli ultimi otto secoli non ha fatto altro che distruggere le monarchie stesse, considerate senza alcuna motivazione reale come nemiche della libertà.
Un esempio lampante e che pochi conoscono, è il fenomeno della Vandea italiana (si veda il saggio “La Vandea italiana” di Massimo Viglione).
Plinio Corrêa de Oliveira, storico, politico, filosofo, giornalista e cattolico tradizionalista, scrive in “Rivoluzione e Controrivoluzione”:
«Se la Rivoluzione è il disordine, la Controrivoluzione è la restaurazione dell’Ordine. E per Ordine intendiamo la pace di Cristo nel regno di Cristo. Ossia, la civiltà cristiana, austera e gerarchica, fondamentalmente sacrale, antiegualitaria e antiliberale.»
Il senso più profondo di queste parole, la cui importanza è fondamentale, rispecchiano appieno quello di cui il mondo oggi avrebbe bisogno per combattere la deriva odierna e che rispecchiano appieno il pensiero di Dante e che, allo stesso tempo, sono il motivo della Vandea nostrana. La vulgata racconta una storia che ci ha venduto l’idea che gli italiani di allora fossero entusiasti di accogliere la rivoluzione, occultando il movimento contrapposto: la reazione armata, in nome delle tradizioni religiose e civili del popolo italiano che si rifacevano a quegli ideali alti e profondi manifestati da Dante, sgorgati spontaneamente in tutta la penisola tra il 1792 e il 1814, contro la “democratizzazione” imposta dall’invasore massonico giacobino che mirava a distruggere la monarchia. Fu un’insorgenza nazionale, ma lo fu soprattutto nel senso che ad essa partecipò tutto il popolo, o meglio, i rappresentanti di tutti gli ordini in cui allora si articolava la società italiana: clero, nobiltà e terzo Stato, o popolo propriamente detto, i quali combatterono al grido di «Viva Maria! Viva il Papa! Viva il Re!» Mai più in terra nostrana si vedrà un’unità d’intenti come quella di allora, in difesa di quella monarchia che, contrariamente a quanto la storiografia ufficiale racconta, non è stata così nefasta come ci hanno fatto credere.
L’esempio appena esposto che ben si accosta al tema dantesco in quanto ne sottolinea il legame ed evidenzia le ragioni del poeta fiorentino nel credere alla Monarchia come unico ordine possibile che si mantiene fedele a principi e valori ben radicati, pone l’accento su un assolutismo che molti giudicheranno intransigente; tuttavia, l’intransigenza, che è anche la capacità di mettere un freno a tutto ciò che va oltre la decenza umana, è un’altra caratteristica che manca nel mondo di oggi.
A tutto questo, Dante aggiunge un ramo “teologico” alla sua analisi. Se Dio ha scelto di incarnarsi durante l’impero di Augusto, l’ha fatto per affermare, attraverso un segno preciso, che quella forma di governo era la migliore possibile. Il pensiero moderno, e qui ci riallacciamo al discorso fatto in precedenza, ha abituato le persone a tenere scisse la politica e la religione, pertanto, il concetto di autorità che opera per investitura divina e che teme il giudizio finale, esautora di responsabilità l’uomo politico, che non solo non teme più il giudizio di Dio, ma nemmeno quello degli uomini. Con questo non si vuole mescolare le due cose, semplicemente affermare, che dovrebbero forse, partire dallo stesso presupposto.
In sostanza, si cancella qualsiasi responsabilità poiché non vi è giustizia, qualunque azione un uomo possa compiere. Dante sosteneva che fu il popolo romano ad essere scelto da Dio per guidare il mondo, per questo egli fa riferimento alla “coincidenza” dell’incarnazione del creatore proprio al tempo di Augusto. Ma anche in questo, la storia che conosciamo, non fa chiarezza sulle ragioni della scomparsa dell’Impero, poiché furono coloro che hanno per padre il diavolo, gli eterni nemici dell’ordine sacro che trae le sue fondamenta in Dio a distruggere quella forza che Dante aveva riconosciuto come specchio della struttura universale a garanzia di pace, amore e giustizia, che troppo spesso è stata dipinta in maniera totalmente diversa da ciò che era in realtà.
In tutto ciò, Dante, una volta dimostrato che la monarchia è la forma di governo scelta da Dio per gli uomini, e che trova la sua dimensione nella struttura dell’Impero Romano, risulta necessario appurare se l’investitura divina sull’imperatore provenga direttamente da Dio o se sia mediata dal suo vicario, cioè dal papa.
Un argomento piuttosto spinoso vista la situazione del papato, dopo secoli di continue infiltrazioni all’interno della chiesa da parte di forze sovversive che ne hanno completamente snaturato gli scopi con cui è stata fondata.
Nel caso in cui l’imperatore fosse subordinato al papa, il primo dovrebbe rendere conto al secondo delle proprie azioni. Nell’Europa del primo Trecento si trattava di un problema di grande rilevanza, anche per il concorrere di diverse situazioni politiche (si pensi ad esempio all’autocrazia pontificia di Bonifacio VIII, la ripresa dell’iniziativa imperiale in Italia con Enrico VII, l’intraprendenza della monarchia francese sullo scacchiere italiano) che introducevano delle novità nei rapporti fra la Chiesa e poteri civili.
E qui Dante, si potrebbe dire che si pone in controtendenza, poiché si schiera a favore della piena autonomia dell’imperatore, dichiarando che egli è messo a capo del suo governo direttamente da Dio e da Dio soltanto. Dunque, riconosce una maggiore dignità del pontefice, verso il quale l’imperatore deve sempre e comunque mostrare reverenza in quanto vicario di Dio. In tutto questo però, vi è un passaggio fondamentale che è esattamente un altro degli anelli mancanti affinché oggi si possa creare un vero meccanismo di difesa che faccia da muro contro la continua corruzione dell’anima protratta da un potere che vuole sostituirsi a Dio e che oggi lo sta facendo sotto ai nostri occhi.
La struttura appena enunciata da Dante sul rapporto tra l’imperatore e il papato e le conseguenze che questa avrebbe nel suo operato, pone l’accento sul fatto che in questo modo, la sfera materiale diminuirebbe la sua influenza sulla vita umana rispetto a quella spirituale che verrebbe posta come priorità, in quanto portatrice di principi e di valori funzionali a mantenere saldo non soltanto l’ordine costituito, ma in primis la stessa civiltà.
Nonostante il De Monarchia di Dante, agli inizi, sia stato oggetto di censura da parte della chiesa, probabilmente a causa di un mancata comprensione da parte del papato delle ragioni di Dante che non erano volte ad una presunta dichiarazione di guerra alla chiesa, ma al contrario, ad un ordine ben definito dalla visione teocentrica, risulta incredibilmente attuale in quanto sottolinea diverse componenti mancanti alla società moderna che, ormai, si è del tutto scristianizzata e spersonalizzata da un lato, e deresponsabilizzata dall’altro. Non riconoscendo più un ordine ben definito, rimasto in balia di tutto ciò che è intangibile (artificiale) e non tangibile (creato), l’uomo naviga in acque sconosciute, sotto un cielo oscuro, senza avere più una rotta.
Infine, Dante ci dà una grande lezione. Egli scrive:
«Tutti gli uomini, che la natura dall’alto ha improntato all’amore per la verità, hanno, più di ogni altro, questo dovere: preoccuparsi che i posteri ricevano da loro di che arricchirsi, così come loro sono stati resi ricchi dall’impegno degli antichi. Deve sapere che si sottrae ai suoi obblighi chi non si cura di portare il suo contributo all’umanità, dopo aver tratto profitto dagli insegnamenti che questa gli ha dato: costui non è albero piantato lungo il fiume, che a tempo debito dà frutto, ma rovinoso abisso, che sempre inghiotte e mai rende ciò che ha inghiottito.»
Dante dichiara così di voler portare il proprio contributo all’arricchimento dell’umanità e chiama tutti noi a seguirlo, adducendo alle conseguenze nefaste se ciò non dovesse accadere. Un arricchimento che non è tanto materiale, quanto spirituale.
Questo problema risulta anch’esso molto attuale, in quanto, con la scomparsa delle tradizioni tipiche della nostra cultura, e a causa dei grandi cambiamenti negli usi e costumi e nella tecnologia che ha preso il sopravvento sull’essere umano, è andato scomparendo il passaggio del sapere di padre in figlio. Anche in questo caso, non si parla di un sapere solamente “tecnico” o comunque materiale, bensì spirituale, legato appunto, alla tradizione.
Per Dante nulla di nuovo viene creato o inventato, perché tutto già esiste dal momento della creazione da parte di Dio, e compito dell’uomo, casomai, è quello di scoprire, di portare alla luce ciò che è ancora nascosto. La scoperta, per Dante, rappresenta una vera e propria presa di coscienza, e non uno strumento di dominio. Per questo, la Monarchia di Dante, chiama le persone alla responsabilità che hanno nei confronti della società umana nel suo complesso, e con ogni probabilità non vi è mai stata epoca nella storia in cui questo messaggio sia stato più attuale che in questo momento storico dove tutto ciò a cui fa riferimento Dante è stato completamente cancellato.
Possiamo interpretare il messaggio dantesco contenuto nel testo come un appello di grande attualità al fine di ritrovare quella fede, quei principi e valori morali alti, tipici della nostra cultura e della nostra tradizione, che fungono da muro difensivo contro le insidie della modernità e che risultano funzionali ad un ritorno alle nostre radici per riscoprire tutto ciò che ci è stato tolto e che abbiamo dimenticato. Una chiamata alla responsabilità del sapere in un momento storico come quello presente nel quale domina il caos.
Chi scrive non può asserire con altrettanta sicurezza che il modello descritto da Dante sia il migliore possibile a questo mondo, ma sicuramente ne condivide buona parte della visione. I fatti storici occultati dalla storiografia ufficiale parlano chiaro. Ad esempio, si pensi al caso citato in precedenza riguardo al nostro paese, un’Italia più unita quando era divisa di quanto non sia mai stata dall’unità voluta dai poteri occulti in poi, i quali hanno distrutto la monarchia e cancellato dalla nostra memoria la vera cultura e tradizione nostrana, fatta di autodeterminazione, ma che riconosceva nell’impero, nella monarchia e nel papato quelle autorità poste a difesa della civiltà.
E non è un caso che, proprio nel nostro territorio, si sia verificato un fenomeno come quello della Vandea Italiana, che ha dimostrato quanto tutto il popolo credesse fermamente in questi principi e valori morali, animato da una fede incrollabile per la quale clero, nobiltà e terzo Stato, si ritrovarono gli uni a fianco agli altri contro gli eterni nemici dell’umanità come la Monarchia di Dante avrebbe voluto.
Infine, è utile ricordare che il modello di Dante, il quale ricorda un’impalcatura Stato – Chiesa, non è da confondersi con l’omonimo voluto dal potere sovrannazionale per la nuova dimensione del mondo. Il secondo è un modello Stato – Controchiesa, che nulla a che vedere sul piano religioso, spirituale e politico con il primo. Si tratta di due dimensioni distinte, in cui la seconda, quella voluta dal potere, è sovversiva e antiumana, inserita in un contesto in cui le basi della cultura occidentale millenaria non esistono in più, ivi compresa la concezione di Dio che tutti noi conosciamo, descritta perfettamente da Dante.
Nel nuovo “regno” non c’è posto per Dio, e non c’è posto per noi, se non come mangiatori inutili al servizio di coloro che vogliono prendere il posto di Dio.




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